Dr. De Crescenzo qual è lo stato dell’arte della ricerca clinica in Italia?
È diffi cile, se non impossibile, dare una risposta semplice a questa domanda. La realtà della ricerca clinica in Italia è molto complessa.
Nel nostro Paese esistono dei centri di ricerca clinica di assoluto valore, li defi nirei di eccellenza, dei veri e propri punti di riferimento per tutta la ricerca internazionale. Questi centri vengono selezionati indipendentemente dalla realtà locale, che a volte può addirittura ridurne l’effi cienza per delle lungaggini burocratiche che non sempre sono a tutela del paziente, ma che a volte smascherano soltanto un’inadeguata organizzazione. È molto diffi cile che tra le priorità che quotidianamente assillano i Direttori Generali di un’ASL siano presenti gli studi clinici. E questo è un peccato perché si riducono drasticamente le possibilità di una seria ricerca clinica in molti centri italiani.
Siamo comunque (ancora per non so quanto tempo) il quinto mercato farmaceutico, e anche questo conta, quando si assegnano gli studi internazionali.
Inoltre, le Direzioni Mediche delle aziende che operano nel nostro Paese sono generalmente formate da professionisti seri e molto ben preparati.
E anche questo è importante nell’attrarre la ricerca in Italia. Lo stato della normativa relativa agli studi clinici, in questi ultimi dieci anni, ha senz’altro reso il nostro sistema più
competitivo rispetto al passato. La responsabilizzazione dei comitati etici nella valutazione scientifi ca, etica e di fattibilità del protocollo clinico, ha senza alcun dubbio migliorato, e di molto, il nostro lavoro.
Restano dei punti su cui dover ancora lavorare.
Qui possiamo solo elencarne i maggiori:
una maggiore uniformità delle richieste da parte dei singoli comitati etici, la soluzione dell’annoso problema della stipula delle assicurazioni e la fi rma del contratto con la relativa autorità competente. Quest’ultimo punto forse è il più spinoso, perché le autorità competenti (in pratica le Direzioni Generali) sono di nomina regionale, e quindi bisognerebbe trovare un accordo quadro con tutte le Regioni.
Noi da tempo chiediamo la presenza di un delegato del Direttore Generale alle riunioni del Comitato etico, che abbia l’autorità di poter fi rmare contestualmente il contratto con lo sponsor, per un protocollo ritenuto etico e scientifi camente interessante dal Comitato etico. C’è comunque un certo ottimismo, perché da più parti si registra un’aria nuova di collaborazione tra le diverse componenti, che sembra abbiano tutte capito che è questo il momento di collaborare in modo trasparente, pur riconoscendo a tutti le proprie responsabilità.
Lei ha parlato di Comitati etici, quanti ne sono presenti e un tale numero facilita o rallenta la ricerca clinica?
Il numero totale di Comitati etici nel nostro Paese è compreso tra i duecento e i trecento.
Mi pare di aver letto che attualmente ne siano registrati sull’Osservatorio Nazionale delle Sperimentazioni Cliniche circa 240. Non credo che il numero in sè incida sulla velocità delle risposte alle domande di sperimentazione. Il problema è la qualità di questi Comitati etici, come sono formati, la qualifi ca dei loro componenti, i tempi in cui si riuniscono.
Non è un problema di competenza di chi lavora in un’azienda farmaceutica. Quello che riguarda noi è avere dall’altra parte un gruppo preparato che possa valutare i nostri protocolli.
Ma so che su questo stanno lavorando sia l’AIFA che le organizzazioni dei Comitati etici stessi. Noi possiamo solo auspicare, con doveroso rispetto e la giusta distanza, che possano essi trovare al più presto delle giuste soluzioni alle nostre domande, ma non possiamo, né dobbiamo, in alcun modo infl uire su di esse, consapevoli come siamo dell’importanza dell’indipendenza di questi Comitati etici.
Può dirci, a quanto è di sua conoscenza, come sono composti i Comitati etici? E qual è, secondo Lei, la composizione ottimale?
La composizione è indicata da una specifi ca normativa. C’è in particolare un decreto ministeriale del 12 maggio 2006 che prevede la presenza di due clinici, un medico di medicina generale terrritoriale e/o un pediatra di libera scelta, un esperto di biostatistica, un farmacologo, un farmacista del servizio farmaceutico della istituzione di ricovero o del territorio ove avviene la sperimentazione, il direttore sanitario o il direttore scientifi co dell’istituzione, un esperto in materia giuridica o assicurativa o un medico legale, un esperto di bioetica, un rappresentante del settore infermieristico, un rappresentante del volontariato per l’assistenza e/o associazionismo di tutela dei pazienti.
Inoltre almeno la metà di questi componenti non deve essere dipendente della istituzione ove avviene la sperimentazione, così come il presidente stesso del Comitato dovrebbe essere un esterno. Accanto a queste fi gure, inoltre, il Comitato etico può richiedere la consulenza di esperti per valutare alcuni aspetti o il protocollo nel suo insieme. Ma, ripeto, non è sulla semplice composizione del Comitato che si possa argomentare, quanto sulla preparazione dei singoli componenti e sulla organizzazione dello stesso Comitato che, viste le attuali esigenze, dovrà dotarsi di un’adeguata segreteria scientifi ca e amministrativa. Diciamo anche che la maggior parte dei principali comitati etici è già così organizzata.
Qual è il rapporto fra chi fa ricerca clinica e il Comitato etico con cui si confronta?
Questo è un punto importante, poiché ci sono ancora dei Comitati etici (per fortuna in minoranza) che non vogliono avere alcun rapporto con lo sponsor, e desiderano colloquiare solo con il ricercatore. Questo stato di cose dovrà inevitabilmente cambiare e, alla luce della trasparenza e dell’indipendenza reciproca, le due parti dovranno interloquire sempre di più, magari introducendo anche delle audizioni (l’hearing della FDA) con dei rappresentanti delle aziende. E, a costo di ripetermi, nel pieno rispetto dell’indipendenza del Comitato etico. Ritengo che la trasparenza dei rapporti, la facilità di accesso alle semplici informazioni relative alle date di convocazione e agli esiti delle discussioni, possa decisamente favorire la ricerca clinica nel nostro Paese.
Cosa si auspica per il futuro?
Mi piacerebbe dire che il futuro è adesso, perché se non vinciamo quest’ultima battaglia, temo che quanto fatto fi n’ora risulterà non sufficiente ad aiutarci a essere pienamente competitivi con le diverse realtà emergenti nel panorama internazionale. Ma mi sia concessa una visione ottimistica, visto questo nuovo clima di collaborazione che francamente non ricordo in precedenza. L’importante è capire che ognuno gioca un suo ruolo, unico e imprescindibile, ma certamente indipendente dagli altri, nel rispetto reciproco e in assoluta trasparenza. Per il resto l’Italia ha i centri, le professionalità, i pazienti e le strutture aziendali per rispondere a questa sfida.