Sviluppo preclinico di molecole farmaceutiche

Dott. Domenico Barone

Intervista al Dott. Domenico Barone

NCF • ottobre 2008

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Se un farmaco vuole ambire a essere utilizzato sull’uomo, deve innanzitutto rispondere a un presupposto inderogabile, quello del primum non nocere. L’obiettivo della fase zero è di verifi care in laboratorio il maggior numero possibile di caratteristiche del principio attivo. Cercheremo di approfondire l’argomento avvalendoci dell’esperienza di Domenico Barone

Intervista al Dott. Domenico Barone

Dott. Barone, che cosa si intende per ricerca e sviluppo non clinico (o preclinico) di una molecola farmaceutica?

Lo sviluppo non clinico (detto anche “preclinico”, perché precede la ricerca e lo sviluppo clinico) di una nuova molecola dotata di attività farmacologica è preceduto da una fase detta “Discovery”, nella quale si eseguono studi ed esperimenti finalizzati a verificare, supportare e illustrare l’idea di partenza o l’ipotesi o l’osservazione che hanno dato origine al programma di ricerca e sostenuto la sua realizzazione. Questa fase si conclude con l’identifi cazione di una molecola (lead) scelta, tra le tante identifi cate e sottoposte a screening, grazie ai suoi profi li farmacodinamico (PD) e farmacocinetico (PK), uniti a favorevoli risultati preliminari relativi alla sua sicurezza (studi di Early Safety Evaluation). Se necessario, il lead è sottoposto a un processo chimico d’ottimizzazione (lead optimization) al fine di migliorarne le caratteristiche di PK/PD e di aumentarne i margini di sicurezza. Lo sviluppo non clinico comprende tutte le attività di caratterizzazione del lead, o del lead ottimizzato, per quanto riguarda gli aspetti relativi alla sicurezza e alla farmacocinetica in una o due specie animali. Generalmente è suffi ciente effettuare studi brevi o di media durata in due specie animali e studi di PK, possibilmente in animali delle stesse specie usate nelle prove di sicurezza. Sono anche necessari test di mutagenesi in vitro finalizzati alla valutazione del potenziale genotossico della molecola e test di Safety (o Regulatory) Pharmacology che investigano il potenziale che la molecola ha di indurre effetti farmacodinamici indesiderati. Lo scopo di questa fase di ricerca e sviluppo non clinico è pervenire a una conoscenza e caratterizzazione del lead sufficiente a soddisfare le richieste delle Autorità Regolatorie (FDA in USA, EMEA nella CEE) e dei comitati etici ad autorizzarne somministrazione all’uomo. Tutte le attività svolte nell’ambito della sperimentazione non clinica – finalizzate alla caratterizzazione dei nuovi principi attivi e a ottenere evidenze sperimentali sulle loro proprietà e/o sulla loro sicurezza per la salute umana e/o per l’ambiente – devono essere condotte in conformità al sistema di gestione della qualità definito dai principi delle Buone Pratiche di Laboratorio (BPL) e al controllo della loro applicazione per le prove sulle sostanze (vedi l’ultimo aggiornamento del Dlg 2 marzo 2007, n 50 di attuazione delle direttive 2004/9/CE e 2004/10/CE). Tali principi garantiscono la qualità degli studi non clinici sulla sicurezza sui quali è basata la valutazione del rischio. Le BPL, conosciute anche come Good Laboratory Practices (cGLP), fanno riferimento all’OCSE, che già dal 1979/80, tramite gli stati membri, ha voluto armonizzare i metodi utilizzati per le sperimentazioni e le buone pratiche di laboratorio. I principi di BPL sono stati adottati dal Consiglio OCSE nel 1981 e sono stati aggiornati nel 1996. Il DLg 50 del 2007 rappresenta un’evoluzione e un aggiornamento della legge applicata in Italia già dei primi anni 80. Obiettivo dei principi delle BPL è promuovere la generazione di dati qualitativamente ineccepibili. La comparabilità del livello di qualità dei dati ottenuti saggiando le sostanze è fondamentale per renderli reciprocamente accettabili nei vari paesi. Se ogni singolo paese può fare affidamento sui dati ottenuti nelle sperimentazioni effettuate in altri paesi, si possono evitare duplicazioni, risparmiando così tempo e risorse. L’applicazione delle BPL consente, in altre parole, di migliorare la tutela della salute umana e dell’ambiente. Per essere autorizzati a entrare in Fase Clinica I, finalizzata a valutare la tollerabilità e i profili farmacodinamico e farmacocinetico della molecola nell’uomo, occorre sottoporre (IND: Investigational New Drug Application in USA; CTA: Clinical Trial Application e CTE: Clinical Trial Exemption Scheme nella CEE) agli Enti Regolatori un dossier (Investigator’s Brochure) corredato da tutti i risultati di efficacia e degli studi regolatori eseguiti. Il lead che supera il processo di ricerca e sviluppo preclinico viene, a questo punto, definito “molecola candidata” alla somministrazione a volontari sani (cioè a entrare in Fase Clinica I). Durante il percorso di ricerca e sviluppo non clinico altre attività debbono essere svolte. In particolare, queste riguardano il processo di sintesi e la sua ottimizzazione (in BPL) necessaria a produrre quantità consistenti di prodotto da usare negli studi di tossicologia, PK e Safety Pharmacology. Inoltre, in prospettiva degli studi di Fase I, ci si deve attivare a portare il processo di produzione in Good Manufacturing Practice (cGMP/NBF Norme di Buona Fabbricazione). Dalle poche decine/centinaia di milligrammi prodotti per gli studi di discovery, si passa alle decine/centinaia di grammi utilizzando, se possibile, lo stesso processo di sintesi, o modificandolo fino a ottenere i volumi di prodotto necessari (Pilota Farmaceutico). La fase di ricerca e sviluppo non clinico inizia con la decisione aziendale di portare il lead in sviluppo non clinico e si conclude, in caso positivo, con l’autorizzazione delle competenti Autorità Regolatorie e dei comitati etici a somministrare il prodotto all’uomo. La durata di questa fase è generalmente compresa tra i 12 e i 24 mesi.

Quali sono, più in dettaglio, le prove di laboratorio che devono essere portate a conferma dell’azione effi cace e non tossica della molecola?

Le prove d’effi cacia di una molecola si ottengono con test di farmacologia, quelle sugli effetti tossici con test di tossicologia. Da sempre, i farmacologi hanno utilizzato metodi derivati da discipline scientifi che affi ni quali l’anatomia, la patologia, la chirurgia, la zoologia e, soprattutto, la fi siologia e le scienze comportamentali. Fin dai suoi inizi, e per molti decenni, la ricerca e scoperta di nuovi farmaci si sono esclusivamente basate su modelli animali, su osservazioni cliniche e sulla “serendipity”, sull’attitudine, vale a dire, di fare scoperte sfruttando le opportunità offerte dal caso. In anni più recenti, numerosi e decisivi contributi sono venuti dalle scoperte della biochimica. Gli effetti di molti farmaci in terapia umana poterono, così, essere spiegati su basi biochimiche come effetti mediati da enzimi e recettori specifici. Con la scoperta di sempre più numerosi recettori e di loro sottoclassi e sottotipi, lo spettro di attività di molti farmaci è divenuto sempre più complesso. In tempi ancora più recenti, la biologia molecolare permette ai farmacologi di lavorare con recettori umani e con canali ionici espressi in cellule di mammifero ricombinanti in coltura. Ciò permette di superare gli ovvii problemi posti dalla specie specifi cità dei substrati biologici usati, ma la moltitudine di sottotipi naturali e, forse, d’artefatti solleva interrogativi di rilevanza fi siologica e patologica. La sfida che il farmacologo è e sarà sempre chiamato ad affrontare è la correlazione tra i dati ottenuti in vitro con quelli ottenuti in vivo, tenendo sempre ben chiaro che “in vitro semplicitas, in vivo veritas”. È ovvio che i dati ottenuti in vitro possono, molto spesso, non essere ottenibili in un organismo nella sua interezza e complessità. I farmacologi, soprattutto quelli dell’industria, hanno l’obiettivo di trovare nuovi farmaci per terapia umana usando appropriati modelli animali di patologie umane. Questi devono essere rilevanti e predittivi delle indicazioni terapeutiche cercate, cioè i loro effetti devono correlare con i risultati osservati in terapia umana. Per essere rilevante un modello farmacologico deve soddisfare tre criteri fondamentali: 1) dev’essere validato, cioè sensibile in modo dose dipendente, a composti standard noti per possedere l’attività terapeutica desiderata; 2) la potenza relativa dei farmaci noti dev’essere, nel modello, comparabile alla loro potenza relativa nell’uso clinico e, 3) dev’essere selettivo, cioè gli effetti di agenti noti in una certa indicazione terapeutica devono essere distinguibili dagli effetti indotti da farmaci per altre indicazioni. Qualora si debba usare un nuovo modello animale per il quale non ci sono farmaci di riferimento noti, si deve fornire evidenza suffi ciente che tale modello è rilevante e predittivo per lo stato patologico che intende riprodurre. Nel lungo iter di discovery e di ricerca e sviluppo (R&D) non clinico, l’effi cacia della/e molecola/e selezionate durante lo screening viene valutata in tre livelli di complessità. Dapprima se ne valuta l’effi cacia biochimica, cioè la sua attività specifi ca sul suo sito d’azione (recettore o enzima) misurabile quantitativamente con test biochimici. Poi se ne valuta l’efficacia biologica, cioè l’attività su parametri biologici quali inibizione/stimolazione del rilascio di citochine, di fattori di crescita, di neurotrasmettitori, di induzione dell’apoptosi e altri. Nella maggior parte dei casi, le indicazioni preliminari acquisite nei primi due livelli devono essere suffragate da risultati in vivo (terzo livello) che permettono di valutare gli effetti su eventi di rilevanza clinica quali la riduzione della mortalità, della pressione sanguigna, di masse e metastasi tumorali, di patologie infiammatorie, neurodegenerative, autoimmuni, infettive e di altre ancora. Questi sono i modelli animali decisivi sui quali si effettua la reale selezione del lead durante il processo di discovery e la valutazione più approfondita della molecola nella R&D non clinico. Esistono numerosi modelli farmacologici specifici per le varie patologie (disease models), anche se, in molti di questi, la patologia è indotta nell’animale sano con un artefatto (chimico, chirurgico, meccanico) che non necessariamente permette di mimare tutti gli aspetti della corrispondente patologia umana. Ma ci sono anche test condotti su roditori geneticamente selezionati portatori di patologie spontanee (Milan Hypertensive Rats, ratti ipertesi Okamoto, ratti obesi, ratti diabetici, topi che sviluppano il lupus, la psoriasi, solo per citarne alcune). Nello studio delle patologie tumorali sono ampiamente usati topi immunodeficienti (nu-/nu- e SCID) che non rigettano xenotrapianti di tumori umani. L’avvento dell’ingegneria genetica sta fornendo un ragguardevole contributo alla farmacologia sperimentale in quanto permette di generare, attraverso l’inserimento o il silenziamento di geni responsabili di certe anomalie, modelli animali molto più vicini alle realtà patologiche umane. A studi di farmacologia si ricorre anche per valutare il potenziale che una molecola ha di indurre effetti farmacodinamici indesiderati (“Safety - o Regulatory - Pharmacology”, SP). Gli studi di SP fanno parte delle attività di R&D non cliniche richieste da FDA ed EMEA per concedere l’autorizzazione (rispettivamente IND e CTA) a testare sul volontario sano la tollerabilità della “molecola candidata” (Fase Clinica I). Essendo finalizzati a valutare il profilo di sicurezza della molecola, gli studi e le attività di SP vanno eseguiti nel regime di qualità definito dai principi delle BPL. Le richieste regolatorie relative alla SP sono state armonizzate nella linea guida ICH S7A (7/2001), i cui principi generali richiedono che si segua un approccio razionale nella selezione delle specie animali impiegate (roditori, non roditori) e nella conduzione degli studi di SP; che si tenga conto delle caratteristiche della molecola, che dev’essere somministrata per la via prevista in terapia umana, e degli usi terapeutici previsti; che si usino solo metodi scientificamente validi e validati, riconosciuti e usati universalmente, anche se nuove tecnologie e metodologie sono accettate, qualora ciò sia motivato dalle peculiarità della molecola in studio. Gli obiettivi fissati da ICH S7A sono: identificare proprietà farmacologiche indesiderate della molecola che possano avere conseguenze sulla sicurezza nell’uomo; valutare effetti farmacodinamici e/o patofisiologici indotti dalla molecola, osservati durante gli studi di tossicologia e/o in quelli clinici; investigarne il meccanismo d’azione. Il piano degli studi finalizzati al raggiungimento di questi obiettivi dev’essere chiaramente identificato, delineato e scientificamente giustificato. La gerarchia dei sistemi organici sui quali si deve valutare l’impatto della molecola in studio si basa sull’importanza delle rispettive funzioni vitali a partire da quelle più acutamente critiche per la vita: cardiovascolare, respiratorio, nervoso centrale. Se necessario, si valuta l’impatto sui sistemi renale/urinario, nervoso autonomo, gastrointestinale e ormonale. In conclusione, gli studi non clinici fanno parte delle attività di ricerca e sviluppo e sono finalizzati alla valutazione della sicurezza di una molecola dotata di attività terapeutica.

Quali sono le richieste regolatorie riguardo agli studi non clinici?

Le richieste regolatorie concernenti gli studi non clinici sono riportate dalle linee guida (guidelines) edite dalle Autorità Regolatorie. Le linee guida dell’EMEA si possono trovare nei siti: http://www.emea.europa.eu/htms/human/human guidelines/nonclinical.htm e http://www.emea.europa.eu/index/indexh1.htm. Quelle della FDA sono reperibili nel sito: http://www.fda.gov/cder/guidance/ #Pharmacology/Toxicology e, per i biologici, nel sito: http://www.fda.gov/cber/ guidelines.htm. Infi ne, le linee guida dell’ICH sono nel sito http://www.ich.org/, Cache/compo/276-254-1.html, mentre quelle dell’OECD sono scaricabili dal sito www.oecd.org/ehs/. Le guidelines sono documenti consultivi, di indirizzo, che non hanno forza di legge o di norme, ma sono “raccomandazioni” delle Autorità che acquisiscono valore di legge nel momento in cui sono recepite dalle direttive europee o dalle leggi dei singoli stati. Le Autorità sono, in ogni caso, disposte a esaminare la documentazione relativa a molecole che, per motivi scientifi ci, hanno seguito un iter di sviluppo non clinico non conforme a quanto previsto dalle linee guida. Come abbiamo già accennato, le richieste regolatorie non cliniche riguardano tutte le attività che vedono il lead – molecola potente, selettiva, maneggevole, che mostra attività in almeno un modello in vivo per una specifi ca indicazione terapeutica (disease model) e per la quale ci sono indicazioni preliminari sulla tossicità e sul profilo farmacocinetico – diventare “molecola candidata”, cioè un composto pre-formulato, adeguatamente caratterizzato per la sua tossicità/innocuità, per PK, PD e attività in vivo, al fi ne di consentirne la prima somministrazione all’uomo. I principi di BPL/GLP, come anche le NBF/GMP, sono invece, norme di legge e la loro mancata applicazione va incontro alle relative sanzioni civili e penali. Tali norme non devono essere confuse con altri standard, per esempio le ISO, che si basano sull’adesione volontaria, mentre le BPL e le NBF sono obbligatorie. Come già detto, il programma tossicologico regolatorio essenziale per portare la “molecola candidata” in Fase Clinica I è svolto in accordo ai principi di BPL/GLP ed è descritto nella linea guida ICH M3 Step, 5 del 16 novembre 2000, intitolata “Non-clinical Safety Studies for the conduct of Human Clinical Trials for Pharmaceuticals” che armonizza le richieste regolatorie di FDA ed EMEA. Per supportare il primo trattamento nell’uomo, si deve ottemperare ad alcuni principi fondamentali. Anzitutto, si deve scegliere la/le specie animale/i più appropriata/e per la molecola in termini di predittività per l’uomo. Gli studi di Tossicità Generale sono finalizzati alla valutazione della tossicità/innocuità della molecola in studio, sono condotti in una specie roditrice e in una non roditrice, per aumentare il loro livello di predittività, e servono anche a determinare gli effetti inattesi e collaterali che possono essere indotti alle dosi/concentrazioni somministrate (studi di Safety Pharmacology, dei quali si è già detto). La molecola può essere somministrata una sola volta (dose singola in studi di tossicità acuta) o in dosi ripetute (studi di tossicità subacuta), per la via di somministrazione prevista in terapia umana, per caratterizzarne gli effetti tossici e l’organo/gli organi bersaglio, la dose dipendenza degli effetti, la correlazione tossicità/esposizione e la reversibilità/irreversibilità degli effetti tossici (studi di “recovery”). Si devono anche fare studi di tollerabilità locale. Si devono sviluppare metodi analitici sensibili e validati adeguati per determinare i livelli di farmaco nei liquidi biologici e seguire il destino della molecola nell’organismo animale per poter predire il livello di esposizione nell’uomo e fare correlazioni tra livelli plasmatici ed effetti tossici. Infine, si devono identifi care possibili marker di efficacia/tossicità e defi nire un regime adeguato di trattamento (dose, frequenza) per gli studi iniziali nell’uomo. Dal punto di vista operativo, si devono fare studi di metabolismo e di farmacocinetica, per identifi care e localizzare la molecola somministrata (per via endovenosa e per la via prevista in terapia umana) e i suoi eventuali metaboliti (studi di ADME: assorbimento, distribuzione, metabolismo ed escrezione), nonché studi di farmacodinamica per caratterizzare l’azione della molecola al sito di effi cacia terapeutica alle dosi/concentrazioni somministrate. Altri studi da effettuare sono quelli di genotossicità che riguardano gli effetti indotti dall’impatto della molecola in studio sul patrimonio genetico (test di mutagenesi in vitro quali i test di Ames e di aberrazioni cromosomiche; quest’ultimo può essere sostituito dal test del mouse lymphoma). Con il test di Ames si evidenziano mutazioni puntiformi in procarioti (ceppi di Salmonella thyphimurium e di Escherichia coli), mentre con il test di aberrazioni cromosomiche (su linfociti umani) si valuta l’effetto clastogeno della molecola in studio sui cromosomi/DNA; il test del mouse lymphoma, preferito in USA, ha due end points: valutazione dell’induzione di mutazioni geniche e di effetto clastogeno. Un prodotto mutageno è potenzialmente responsabile dell’induzione di cancerogenesi e/o di malformazioni fetali. Questo è il “pacchetto” minimo di studi richiesto per andare sul volontario sano. Ma nel processo di ricerca e sviluppo non clinico devono essere previsti ulteriori studi di tossicologia più approfonditi per coprire le esigenze di sicurezza che derivano dalla previsione di somministrare ripetutamente dosi terapeutiche della molecola a un numero dapprima molto ridotto (Fase Clinica IIa) e poi sempre più grande di pazienti (Fase Clinica IIb e, soprattutto, Fase Clinica III). Sono, questi, studi di mutagenesi in vivo (test del micronucleo su cellule del midollo osseo di roditori trattati con la molecola in studio), di tossicologia a più lungo termine (6, 12 mesi di somministrazione), di cancerogenesi (18-24 mesi di trattamento). Questi ultimi devono anche approfondire e chiarire osservazioni relative ad aspetti tossicologici eventualmente emersi durante gli studi di tossicologia iniziali e durante i primi studi clinici. Inoltre, si devono condurre studi di valutazione della tossicità sulla funzione riproduttiva che sono, fondamentalmente, di tre tipi. Questi ultimi prevedono che il prodotto sia somministrato a roditori e/o a lagomorfi (conigli) durante i periodi critici della gravidanza. Nello studio di fertilità il prodotto è somministrato per alcune settimane prima e durante l’accoppiamento e fi no all’impianto degli embrioni; si valuta il numero dei feti concepiti, il numero degli aborti, il numero dei nati vivi e il loro comportamento. Nello studio pre- postnatale il prodotto in esame è somministrato durante la gestazione e l’allattamento e i nati vengono osservati fi no alla maturità riproduttiva. Infi ne, nello studio di teratogenesi (sviluppo embrionale fetale) il prodotto in esame è somministrato durante tutto il periodo della gestazione e si valutano malformazioni a carico degli arti, dell’ossifi cazione e degli organi interni.

A suo avviso in futuro sarà possibile sostituire le prove effettuate sugli animali o questi ultimi restano insostituibili nella sperimentazione non clinica?

Da tutto quanto detto sopra, è chiaro che l’uso dell’animale da laboratorio rimane e rimarrà assolutamente insostituibile. E questo per ragioni scientifi che, etiche e regolatorie. In tutto il mondo, il numero degli animali da laboratorio usati annualmente si è progressivamente e drasticamente ridotto nel corso degli ultimi 10-20 anni, sostituito parzialmente, quando ciò è stato possibile, da test in vitro su cellule e tessuti normali e patologici, anche di origine umana. A riprova di ciò, l’OCSE, nel 2004, riconoscendo l’importanza di implementare gli studi in vitro e nell’intento di chiarire più in dettaglio l’applicazione dei principi di BPL in tale ambito, ha emesso un OECD Advisory Document intitolato “The Application of the Principles of GLP to in vitro Studies”. Tuttavia, oltre un certo limite, la sperimentazione animale non potrà essere compressa, perché è impensabile che una sostanza, selezionata e caratterizzata esclusivamente in vitro, possa essere somministrata a soggetti volontari sani (Fase Clinica I) senza prima essere stata testata per la sua effi cacia e, soprattutto, per la sua sicurezza e tollerabilità nell’animale da laboratorio. Per quanto parzialmente diverso dall’uomo, l’animale da laboratorio è quanto di meglio, di più sofisticato, di più avanzato e vicino all’uomo a nostra disposizione per fare da fi ltro di valutazione prima di andare sul volontario sano. Se si pensa che il genoma del topo ha in comune, con quello umano, oltre il 60% delle sequenze, mentre quello delle scimmie più evolute supera il 98%, si potrà apprezzare meglio il valore di questa affermazione. E nessun computer, nessuna banca dati, per quanto complessi e sofi sticati, possono sostituire, non dico l’ animale da laboratorio, ma neppure una cellula di mammifero nella sua interezza strutturale e funzionale. È pura ignoranza e/o ipocrisia sostenere il contrario. Gli animalisti portano alcuni esempi a sostegno delle loro tesi sull’inutilità, se non addirittura pericolosità, dell’uso degli animali da laboratorio. Uno dei cavalli di battaglia a sostegno delle loro tesi è il talidomide che, trovato non teratogeno nel topo, quando fu somministrato alla donna in gravidanza provocò gravi danni al feto, risultando teratogeno. La risposta a tale obiezione è che, se il talidomide fosse stato studiato anche su una seconda specie animale – per esempio il coniglio, cosa che fu fatta solo in un secondo tempo, quando ormai era chiaro che questa sostanza era teratogena nella donna gravida – se ne sarebbe evidenziata la tossicità fetale e si sarebbero potuti evitare centinaia di neonati con gravi malformazioni. Lo stesso è vero per la penicillina, così tossica nella cavia da escluderne l’uso umano, ma molto meno tossica in altre specie e nell’uomo. È vero che circa il 70% delle molecole che superano lo sviluppo preclinico cadono in clinica a causa degli effetti tossici che inducono e che il 25% delle molecole che non superano le fasi cliniche hanno superato con successo le prove di tossicologia e di safety pharmacology nell’animale. Ma è altrettanto vero che non abbiamo strumenti migliori e più predittivi dell’animale da laboratorio con cui lavorare. Le differenze della risposta farmaco-tossicologica tra animali e uomo sono, anzi, scientifi camente interessanti perché possono aiutare a capire meglio i meccanismi dell’azione farmacologica e tossicologica e le vie metaboliche umane. E non si tratta solo del punto di vista di un ricercatore, che può essere considerato di parte: è tutta la storia vissuta dalla farmacotossicologia in questi ultimi 70-80 anni che dimostra la validità e la verità di questo assunto. I costi della ricerca e sviluppo non clinico sostenuti dalle industrie farmaceutiche sono considerevolmente appesantiti dall’acquisto, mantenimento e uso degli animali da laboratorio e l’ulteriore riduzione e/o abolizione di questa voce di spesa sarebbe accolta con molto favore dal mondo dell’industria. Sono gli Enti Regolatori nazionali e internazionali a imporre il ricorso all’uso di questi animali, anche se dimostrano di essere sensibili a questo problema quando, nelle loro linee guida, raccomandano l’uso di animali appartenenti alle specie evolutivamente inferiori e nel numero più basso possibile. Anche in quest’ottica è nata l’ International Conference on Harmonization (ICH) che si prefi gge di armonizzare le richieste regolatorie in modo che gli studi fatti in un paese possano essere accettati da altri paesi, con riduzione del numero degli animali usati, dei costi e dei tempi. Molti studi sono stati fatti per confrontare i risultati ottenuti da test in vitro, usando cellule e tessuti isolati di animali o umani con quelli forniti dall’animale di laboratorio, ma nessuno, a parte due o tre casi, è stato approvato dal mondo scientifico e, tantomeno, dagli Enti Regolatori pur sotto la pressione, spesso violenta e talora criminale, esercitata dalle associazioni di animalisti. Recentemente (17/12/2007) è stato pubblicato online, sui Proceedings of the National Academy of Sciences, uno studio condotto da ricercatori del Rensselaer Polytechnic Institute e di Solidus Biosciences (ambedue di Troy, NY, USA) e dell’Università di Berkeley (CA, USA) che hanno sviluppato DataChip e MetaChip, due biochip che, stando ai loro inventori, rappresenterebbero un’economica alternativa all’uso dell’animale di laboratorio. Secondo gli autori, i due biochip, combinati tra loro, sono già stati in grado di determinare la tossicità di oltre mille prodotti chimici noti in vari organi umani e di predire se tali prodotti diventano tossici una volta metabolizzati dall’organismo umano. Infatti, i due biochip potrebbero essere modifi cati in modo da riprodurre le vie metaboliche di un organismo vivente. Secondo gli autori, introducendo l’uso di questi biochip già nelle fasi precoci nel processo di ricerca di nuovi farmaci (discovery), sarebbe possibile individuare le molecole tossiche molto prima di quanto non avvenga ora seguendo le strategie attuali che evidenziano gli aspetti tossici delle molecole in studio solo in fasi più avanzate, quando dagli studi in vitro si passa agli studi in vivo, sull’animale da laboratorio. Ciò permetterebbe di non usare animali da laboratorio e di risparmiare soldi e tempo, accedendo alla ricerca clinica in tempi rapidissimi. Tuttavia, anche se questi e altri biochip si rivelassero davvero così promettenti, sarebbe necessario un lungo percorso di validazione basato sul confronto 1) dei dati forniti dai biochip con quelli della tossicologia di molecole note e 2) dei dati ottenuti con una nuova sperimentazione comparativa su molecole nuove, per confrontare i dati ottenuti con i biochip con quelli della sperimentazione nell’animale da laboratorio. Vorrei sapere, comunque, chi avrebbe il coraggio di prescrivere, e chi di assumere, “farmaci” selezionati e studiati solo usando biochip, senza prima passare per la sperimentazione animale… Meno male che ci sono le Autorità Regolatorie, che notoriamente procedono con i piedi di piombo e sono poco inclini a farsi infl uenzare da troppo facili entusiasmi. È mio parere che la ricerca e la valutazione di metodi alternativi all’uso dell’animale da laboratorio vada portata avanti con serietà e rigore scientifi co, senza mai cedere a facili, pur se comprensibili, componenti emotivi. La priorità assoluta dev’essere data alla salute umana, alla salute, cioè, di chi l’ha persa e che, a causa di ciò, è in uno stato di angoscia e di sofferenza.

Qual è lo stato della ricerca e sviluppo non clinico in Italia?

Le attività di ricerca e sviluppo non clinico in Italia sono ridotte ai minimi termini grazie a una serie di fattori e di concause che, in questi ultimi lustri, hanno demolito l’industria farmaceutica italiana. La sua componente più delicata, il settore di ricerca e sviluppo preclinico, fi no agli anni ‘90 di una certa consistenza, anche se non particolarmente competitivo a livello internazionale – ricordiamo, comunque, che l’antibiotico rifamicina della Lepetit e l’antitumorale adriamicina della Farmitalia sono brillanti risultati della ricerca italiana – è stato il primo a essere penalizzato e ciò è avvenuto in modo devastante. Dopo la chiusura del grande centro di ricerca della Lepetit (1983-84) – dettato peraltro non da ragioni di crisi finanziaria e/o industriale, ma da ridondanze dovute ad acquisizioni fatte dal principale azionista, la Dow Chemical Company – sono iniziate “ristrutturazioni” diffuse nel comparto farmaceutico italiano, delle quali ricerca e sviluppo sono state il settore più penalizzato in termini di investimenti e occupazionali. Ciò è avvenuto nell’assenza più totale di provvedimenti a tutela dell’occupazione e di investimenti da parte dello Stato. Poi, gli scandali suscitati da tangentopoli (primi anni ‘90) hanno ridotto drasticamente, e talora indiscriminatamente, il prontuario farmaceutico cosicché, insieme all’acqua sporca, si e buttato anche il bambino… Infine, la globalizzazione a livello mondiale ha portato a una sempre più esasperata politica di fusioni e acquisizioni che ha visto l’industria farmaceutica italiana come terra di conquista da parte delle multinazionali del farmaco. Il “sistema Italia”, notoriamente debole a fronte della concorrenza straniera, si è manifestato, nel settore farmaceutico, particolarmente inerte e soccombente nei confronti dell’aggressività dei concorrenti esteri. Un’opportunità potrebbe venire dalle biotecnologie applicate al settore farmaceutico. Ma anche in questo settore, tuttavia, l’Italia è il fanalino di coda in Europa. Le società italiane che possiamo defi nire biotecnologiche nel comparto farmaceutico sono, per lo più, piccoli spin-off originati da gruppi di ricerca di società tradizionali fuse con, o acquisite da, gruppi più grossi. Inoltre, c’è un’agguerrita pattuglia di start-up, piccole o piccolissime, società di discovery che, come le spin-off, appaltano le attività di ricerca e sviluppo preclinico a centri specializzati di ricerca a contratto (CRO). Anche nel settore dei CRO preclinici, centri che sono particolarmente esperti nelle attività non cliniche richieste dagli Enti Regolatori, l’Italia viene buona ultima tra i grandi Paesi europei, potendo contare solo un paio di centri riconosciuti internazionalmente.

Come vede il futuro di tale comparto farmaceutico in Italia?

Molto precario. Solo grandi gruppi industriali possono permettersi attività di ricerca e sviluppo non clinico di un certo livello, tali cioè da coprire le richieste regolatorie che in questo settore sono particolarmente onerose, richiedono varie specializzazioni e anni perché si formi un gruppo di ricerca e sviluppo affi atato, con una cultura aziendale radicata e condivisa nel settore. Il mio timore è che, non essendoci nel nostro Paese società farmaceutiche di dimensioni tali da gestire in proprio le attività non cliniche, si vada estinguendo in Italia la cultura di fare ricerca e sviluppo non clinico o regolatorio.

Il personaggio

Domenico Barone è laureato in Scienze Biologiche (Torino, 1967) è specializzato in Farmacologia Applicata (Milano, 1971), ha lavorato presso l’ABC di Torino, il Centro Ricerche Lepetit di Milano e l’RBM di Ivrea. In oltre 40 anni di attività, si è occupato di ricerca in vari settori della farmacologica classica ed è stato tra i pionieri, non solo in Italia, della farmacologia recettoriale applicata alla ricerca di nuovi principi attivi. Si è anche occupato di immunotossicologia e di mutagenesi e dello sviluppo farmaceutico nel campo dei farmaci biotecnologici (proteine ricombinanti ottenute da linee cellulari e validazione virale di processo per il loro isolamento e purifi cazione), chiudendo la sua carriera come Direttore Tecnico. Da quattro anni è consulente in farmacologia e tossicologia presso due dinamiche start-up. La prima è impegnata in discovery, ricerca e sviluppo di nuovi farmaci biotecnologici per la cura di patologie a base infi ammatoria, neurodegenerativa e autoimmune. La seconda è specializzata in nanobiotecnologie applicate a sistemi di rilascio mirato di farmaci. Insieme all’attività di consulenza, coltiva da qualche anno un particolare interesse per le nanotecnologie applicate alla biologia che lo ha visto coinvolto come oratore in varie sedi universitarie e congressuali. Attualmente è professore a contratto di Ricerca e Sviluppo nel Settore Biotecnologico presso il Corso di Laurea Specialistica in Biotecnologie Industriali dell’ Università di Torino.

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